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Madonnellenberg Blues 4
mercoledì, Nov 25

Ai nostri tempi, a Berlino, la Distensione sembrava già compiuta, e da mesi. lì vicino c’era ancora il Muro, ma era un muro; nulla, sotto l’uniforme azzurro del cielo a primavera, sembrava parlare ancora di Oriente o di Occidente.

Solo l’insegna del Columbus Hotel, inquadrata dalla finestra della nostra camera, appariva ogni mattina a ricordarmi l’America; per associazione immediata, perenne: da solo, davanti al Columbus, ricordavo l’America, e quel che significava.

Nell’insegna, le parole Columbus e Hotel si incrociavano, condividendo la O; lettere di plastica opaca davano già idea di sporcizia celata e dubbia igiene; il doppio contorno nero di ciascuna lettera, corroso, produceva un effetto informe, di notte, quando l’insegna era accesa da lampadine insufficienti.

Impressionante, la dose di dolore a disposizione, sotto la facciata generica e sempre uguale dei vecchi ricordi, Che-belli-da-giovani-tanti-anni-fa, una patina vera quanto la pubblicità, ma stesa ad avvolgere e coprire tanta, tantissima verità, densa, letale.

I brutti ricordi attendevano, appena sotto la pellicola del Grande Amore Giovanile.

Ogni mattina ero solo, guardavo l’insegna e pensavo all’America.

Da un giorno all’altro, lei non aveva più voglia di restare a letto con me: si svegliava e lasciava subito la stanza, senza una parola; spariva chissà dove nell’appartamento. Forse entrava in camera di qualcuno degli altri ragazzi: io non avevo il coraggio di seguirla.

Avevamo smesso di fare l’amore. Diceva di amarmi, ma io non sapevo più come toccarla, non potevo farlo. Era molto semplice: se io non ero capace di soddisfarla, perché continuare? Tutto era molto semplice, la vita era semplice, e lei era venuta a ricordarmelo, a imporre una verità che conoscevo e preferivo ignorare. La vita ha poche leggi, ma sono precise, vincolanti, brutali.

C’è chi è forte e c’è chi è debole.

Io ero un debole. Nel corpo, nello spirito: debole. Debole, a letto, e allora a letto da solo, davanti al Columbus: un postaccio, di certo, un posto dove mi avrebbero mangiato vivo. Dove non avrei potuto difendere lei, da niente e da nessuno, in nessun modo.

Ci poteva anche stare, trent’anni fa. Non ero un uomo, trent’anni fa, ma stava accadendo ancora. Questo lo avevo imparato: il passato, immutabile, ci inchioda a noi stessi. Per quanto possiamo crescere, per quanto ci illudiamo di avere conquistato la nostra stessa evoluzione: basta azzardarsi a tornare nel passato, cercare e trovare le sue figure, i luoghi del passato, e noi stessi saremo passato, con lo stesso ruolo, le stesse debolezze di allora, per ripetere gli stessi errori e vedere le cose andare male ancora, proprio come allora.

Per questo, avevo smesso di andare a caccia del passato, per quanto felice, promettente o esaltante lo ricordassi.

Io avevo smesso. Lei no.

– Tu sicuro le sai le cose che mi dicono dietro, a Bari.

Annuivo e parlavo poco, concentrato sullo sguardo, dritto negli occhi di Brando, e attento a che tenesse la mia aria da duro, vigile sulla credibilità dei miei modi.

Come trent’anni fa, da ragazzino: la soggezione della strada, la paura della strada, ma il desiderio di piacere ai ragazzi che ci vivevano, avere il loro consenso, essere accettato. Poche leggi, precise, vincolanti, brutali, e io non ne conoscevo nessuna, ma speravo che bastasse l’aria da duro a cui stavo tanto attento, che stonava con la mia prona condiscendenza verso i duri veri.

Spesso ero distratto, quando mi si rivolgeva la parola.

– Oh! A te sto dicendo.
– Già. Prego?

Brando scoppiò a ridere, senza canzonatura: rise di divertimento sincero. Mentre io non avevo più appigli, e nessun orientamento fra gli eventi, in quel che stava accadendo, in mezzo a un festino da trenta persone, in casa di un malvivente, mentre faceva buio fra alcol e coca, nella profonda irrealtà deforme di ogni cosa: sentivo tuttavia l’importanza del giudizio di Brando sul mio conto. Sentivo quanto avesse a che fare con lei, e con quello che io potevo fare per lei, dopo trent’anni – e senza avere costruito nulla, né messo insieme alcun capitale se non me stesso, la mia identità di uomo, proprio quello che lei, carica del potere malefico esercitato dal passato, avrebbe potuto cancellare con un solo gesto, quello stesso giorno, per lasciarmi nudo, spogliato dei trent’anni trascorsi; non più uomo, di nuovo ragazzino.

Fare colpo su Brando, perché avrebbe risolto le cose. Mentre i fatti parlavano chiaro: quando avevo conosciuto Brando, stavo cagando in un’aiuola. Eppure, fra pazzo e idiota, sentivo che Brando pendeva per la prima ipotesi – declinata in senso proprio, clinico – ed ero già in vantaggio, in questo abboccamento di cui io solo ignoravo il senso, questo incontro intimo che si rinviava da ore, necessario e irrilevante in parti uguali.

– Io e te – e Brando mi sbagliava nome, costringendomi a correggerlo – appena c’è un minuto, mi raccomando… Prima ci beviamo una cosa con gli amici, qui.

E così era andata avanti, dalla mattina alla sera, di ora in ora, mentre la lunga figura dinoccolata di Brando, di un preciso tipo italiano, e la massa mobile dei suoi capelli, quei lunghi, sottili vortici ricci e tinti, sembravano fatti apposta per cingere gli amici, dalle spalle, e condurli per spirali e giravolte a bere al bancone.

Avevo sconsigliato Zaum, troppo intellettuale, troppo a sinistra, e Brando mi aveva guardato come se fossi pazzo per davvero, quasi con ripugnanza.

– No? E perché, scusa?

Come trent’anni fa: la mia sollecitudine sbagliava ancora, sui gusti della strada, né riuscivo a impedirmi quel sorrisetto effeminato, vergognoso, per glissare su errori impercettibili e irrilevanti, ma capitali ai miei occhi – un sorrisetto alla Fate di me quel che volete che io, onestamente, avrei schiaffeggiato fino a dissolvere.

Da Zaum eravamo in tre: Brando dichiarava umilmente la sua estraneità al libro, io mi stupivo, per la qualità colta del suo modo di parlare, lei, con intelligenza, spiegava che leggere serve solo perché costringe a uno sforzo di costruzione, per decodificare e completare mondi e pensieri di cui lo scrittore dà solo allusioni.

– Più o meno raffinate o grossolane. Ma solo allusioni.

E Brando, entusiasta:

– Vedi? ‘Ste parole! A me mica mi vengono! Perché non ho letto, come voi!

Brando, lo avevo notato subito, pronunciava complimenti in continuazione, per tutti. L’umore del mondo attorno doveva essere alto, il più possibile, ed era una sua responsabilità, Brando sapeva di possederne, in parte, interruttori e valvole – e l’adolescente che ero riusciva a sentirsi a disagio anche con un uomo simile.

Un’ora dopo, chiuso Zaum, eravamo una decina al bar di fronte, dove mai mi ero seduto né mai lo avrei fatto, un bar da banco e via che, con Brando al centro, prendeva sembianze di night club.

Poi, nel dehor del Pharos, quindici o venti persone urlavano ubriache su tre tavoli e poi, al posto del pranzo, al bar tabacchi d’angolo, pezzi della comitiva sconfinavano ciondolando nei giardinetti vicini, sul mare, e già i cellulari suonavano la musica spinta, per ballare, come se equivalesse al Divertimento stesso.

Certo, era un modo esaltante di buttare le giornate. Pare che Vallanzasca avesse lo stesso stile; di sicuro, una malavita progettata da Brando, un anti-stato, un potere di fatto che fosse a sua immagine e somiglianza, avrebbe strappato il mio consenso. La brutalità sanguinaria di uomini arretrati sembrava una parentesi storica sbagliata, ed era lontanissima: Brando di certo non ne avrebbe compreso il senso.

Eppure la brutalità doveva esserci, doveva esserci la prevaricazione, sotto i lustrini della festa: era qualcosa da sbrigare in dialetto, con chi apparteneva a quel mondo e ne condivideva le regole. Immaginavo Brando – figure come Brando – vigilare al confine, perché i due mondi si toccassero il meno possibile e non si contaminassero. Era suo padre, o forse uno zio, che chiamavano Il Martello: come tutti, conoscevo il cognome e la zona di influenza per la famiglia di rispetto a cui apparteneva Brando, e solo per questo potevo unire uno come lui alla vecchia generazione, a quell’uomo duro e pericoloso, quel comandante violento che era il Martello. Brando non sembrava un uomo pericoloso, ma un uomo brillante, seducente come pochi, e attraente. Il suo comando si trasmetteva come il divertimento, con allegra serenità, quella serenità tipica in chi è certo di avere, attorno, sempre e solo nullità.

Non lo avevo corretto, la prima volta che aveva sbagliato il mio nome:

– Sta in via De Romita, è il suv nero. Me lo metti meglio?

Subito, nel palmo, assieme alle chiavi, avevo sentito la pallina di plastica e Brando, con un occhiolino, aveva cancellato del tutto l’umiliazione di essere comandato a parcheggiare l’automobile. Eppure avrei obbedito, avrei parcheggiato meglio il suo suv, solerte sgherro del posteggio appena ingaggiato. Il genere di cose che avrei fatto, trent’anni prima.

Era un modo generoso e garantito per allontanarmi senza troppe storie: di ritorno al bar, vidi che lui e lei si erano ritirati in disparte, e parlavano all’angolo, al termine dell’isolato invaso dalla nostra comitiva.

Lei era un’altra: senza giri di parole, semplicemente un’altra. Una straniera. Mi aveva visto tornare, aveva fatto un cenno a Brando, entrambi si erano come ricomposti e lui mi aveva chiamato, agitando il braccio. Sorrideva, al mio ritorno, come se gli fossi indispensabile. Non certo audace, ma infantile, regredito, risposi sgarbato al suo slancio affabile, perché la mia irritazione fosse evidente: uomini fatti che recitavano a soggetto uno sketch sulle dinamiche della gelosia da adolescenti. Ed era follia senza diritto, dopo trent’anni e tre ore, ma la mia era gelosia, avevo incassato la botta sorda, il colpo della gelosia, dritto al petto, davanti alla mutazione di lei: davanti alla straniera che, in pochi istanti, si trasformava di nuovo, per tornare donna amata. Intanto, pensieri dal trentennio scorso: sei qui perché c’è lei, lei ti ha raccomandato, c’è lei e tu con lei; sposatevi, ma sarai tu prendere il suo cognome.

Lei catalizzava il maleficio del passato, a meraviglia

– Oh, e allora? Ci sei?
– Già. Perdonami. Dicevi?

Brando rise ancora, scuotendo la testa:
– Che tipo… Ma scusa, onesto, non è che hai quel male? Il disturbo… Quello col nome…
– non credo. Ma ci siamo conosciuti che cagavo ai giardinetti. Al posto tuo, un’idea sul mio conto me la sarei fatta.

Ridemmo insieme. Ecco l’uomo adulto, padrone delle verità brillanti che pronunciava. Così, per lei, avrei conquistato l’approvazione di Brando, al termine del nostro confronto: da uomo adulto. Un individuo libero dal vaglio ossessionante dei propri gesti, dalla scissione in due, fra regista e attore, che impastoiava l’adolescente nel perenne controllo della propria stessa immagine. Scissione era la parola-chiave, per quell’inferno da poco, sudato e tremante, quell’inferno dubbioso che era stata l’adolescenza. E oggi, di nuovo, l’adolescente cercava di conquistare il centro della mia coscienza: era lei ad averlo evocato, lei aveva aperto la porta d’ingresso all’adolescente, proprio nel momento in cui lei – a quanto mi era permesso di capire – aveva un bisogno disperato dell’uomo adulto.

Un bisogno disperato: era l’unica indicazione che avessi ricevuto da lei, in qualche modo. La comitiva si spostava a piedi, invitata per il pomeriggio da Brando, via Dalmazia ad angolo con via Istria; eravamo tanti da occupare la strada, sballati a sufficienza per fare chiasso e farci notare come un’improvvisa, piccola parata, una fulminea processione profana, incongrua sotto ogni aspetto – per età, collocazione sociale, conto in banca, e per ogni tratto esteriore che potesse esprimere queste difformità: arduo immaginare una trentina di persone che avessero meno a che fare, le une con le altre. Io e lei eravamo appena indietro sul gruppo e allora lei mi aveva stretto il polso, per fermarmi. Un’altra donna ancora, in quel momento, e con ogni probabilità la donna più reale di tutte: né l’amata né la straniera, ma una donna atterrita. Stravolta dal terrore.

Una donna da salvare.

Non aveva potuto parlarmi, perché ci avevano notato subito. Ma come poteva sorridere, con tutto il viso e con gli occhi, dopo la maschera di terrore che mi aveva mostrato?

L’uomo avrebbe dato la propria vita per difenderla, e sollevarla dalla fatica spaventosa di queste mascherate; l’adolescente, follemente geloso, incapace di guardare oltre l’inganno ai propri danni, l’avrebbe strangolata.

Io ero entrambi.

– Chi se ne fotte – concluse Brando, davanti alla mia perniciosa assenza. – Se credi alle chiacchiere sei un cretino, e il cretino salta fuori subito. Il punto è un altro. Il punto è com’è fatta Bari. A Bari c’è un certo numero di uomini e di donne che vivono la vita. Tutti parlano di loro, sanno come si chiamano, dove stanno, che hanno fatto, che faranno: tutto. Togli questi qua: quello che resta è il pubblico che parla di loro. Il pubblico sono quasi tutti, la grande maggioranza, e sono quelli che nessuno sa come si chiamano, nessuno sa che fanno, che faranno, nessuno sa dove stanno, che faccia hanno, perché nessuno se ne fotte niente. Loro stessi, loro pubblico, non se ne fottono niente. Capisci? Questa è gente che non se ne fotte niente di se stessa. E io con questi, col pubblico, non voglio avere niente a che fare. Capisci?

– Quindi? Vorresti sapere da me come sono fatto? Io ti dovrei dire se sono pubblico o se sono vero?

Sgranai gli occhi, per sottolineare l’assurdo della richiesta. Brando annuì:

– Cretino non sei.

Schioccò le dita e puntò l’indice da qualche parte alle mie spalle: lei, la straniera, che scherzava con quei modi sconosciuti, e rideva nel casino, fra mezzi sconosciuti.

– Ci sono le donne – disse Brando – Funzionano, per capire se sei vero o se sei pubblico. – parlava e intanto valutava con imparziale, obiettivo distacco da play-boy, le qualità femminili della straniera – Uno vero non ha accanto donne di cui ci si accontenta.

Neanche Brando era un cretino.
Ma esistono tanti modi di accontentarsi, con le donne. Purtroppo.
He’d let her fuck the whole Columbus, just to keep her.

Ancora ricordi, i peggiori. Questa frase, all’alba, dalla camera dei due gemelli inglesi che abitavano nel nostro appartamento. Avevano passato la notte a iniettarsi speed-ball e forse, chissà, a parlare di noi due, di me e lei, e a questo modo. Mentre io ero appena sveglio, e andavo a pisciare al mattino, come un povero stronzo qualunque.

Chissà: inganni maligni del dormiveglia. Una frase troppo chiara, per essere un sogno. Una frase troppo precisa, puntuale sulle mie ossessioni, per essere reale. Ancora non sapevo né avrei mai saputo se quella frase appartenesse al sogno o alla realtà. Tanto, la verità era chiara e semplice in entrambi i casi, e non cambiava: ero un povero stronzo qualunque; persino quei due gemelli inglesi erano migliori di me, più interessanti – facevano tutto insieme: insieme, saranno andati in overdose nel cesso di qualche stazione europea, perché poco altro erano capaci di fare, oltre che sballarsi, e poco li distingueva dall’indistinto, oltre alle loro tipiche, sbalestrate dentature inglesi; ma li sentivo più audaci di me, meno intimoriti dall’eccesso. Più interessanti. Migliori.

Quale fosse il mio valore di individuo: sapevo di mentire a me stesso, prima che al mondo intero. Mi fingevo complesso, mentre aderivo segretamente a una visione dell’esistenza tutt’altro che complessa, bruta ed elementare, di forza e debolezza. Potevo sfiancarmi quanto volevo, per far credere agli altri o a lei che l’esistenza fosse un intrico di contraddizioni, di contorsioni e ambivalenze, da sbrogliare e dominare con un’intelligenza superiore. Potevo dirmi migliore, e vincente, perché in possesso di questa presunta intelligenza; tanto, la vita non si lasciava ingannare e nemmeno io credevo alla storiella, né ci credevano i miei rivali, tutti, senza eccezione, più forti di me, più interessanti e migliori. Ovviamente, si rivaleggiava per lei, che sanciva il valore proprio perché – Brando aveva usato la definizione più esatta – non era una donna di cui accontentarsi: lei era la migliore.

Dopo trent’anni sapevo che la questione era mal posta, o piuttosto posta all’incontrario. Sapevo che i sentimenti appaiono e così come appaiono sei costretto a tenerteli, ma di certo tutti dovrebbero opporsi alla gelosia. Dopo trent’anni, sentimenti che non coinvolgessero gli altri e il mondo attorno, ma fossero strutturati come un solitario, come la gelosia, mi sembravano più correttamente definibili psicosi. E un poco di passione e di erotismo esistono, in quell’infinitesima parte sana e sensuale della gelosia, ma sono davvero poca cosa, in un veleno dell’Io che, tra l’altro, assume piena ragione e fondamento nel momento stesso in cui perde ogni diritto di valersi. Se lei è andata, o andrebbe altrove, è andata: puoi solo ritirarti.

Ma dove sia l’altro, per il geloso, conta fino a un certo punto. L’altro, l’amato, non esiste; esiste solo l’ego incerto, mentre perde la sua gara con ego rivali che, nei sogni a occhi aperti del geloso, sono invariabilmente vincenti. L’altro è solo un traguardo, con l’esiguità di un traguardo: una striscia a scacchi per terra, una per aria, una fascia tesa, in mezzo.

Dopo trent’anni, sapevo che l’amore non aveva parentele con l’ossessione; che, a differenza di un’ossessione, l’amore poteva incontrare una fine sfortunata, ingiusta, e spegnersi o troncarsi, ma senza fare del male. L’amore era quella cosa di cui sempre si sarebbe potuto dire: Per fortuna è successo.

Ma ci vuole l’altro per amare, e ci vogliono trent’anni per imparare che l’altro esiste davvero; in questo senso, io non l’avevo mai amata: l’avevo venerata; a differenza dell’amore, la venerazione può accontentarsi di un’immagine.

Ecco: accontentarsi. Uno come Brando non immaginava nemmeno quante altre forme di accettazione rassegnata potessero essere imposte da una donna.

Io sì.

Tutti erano migliori di me, ma io avevo la donna migliore. Per una proprietà transitiva nota a tutti e invidiata da tutti, il migliore ero io. E avrei mantenuto la posizione finché potevo, con tutte le mie forze; potevo accontentarmi delle nostre caste notti bianche, e persino farmi contento se lei avesse scopato l’intero Columbus Hotel. Ma avrei mantenuto la posizione.

Avrei mantenuto la posizione anche per un dettaglio misterioso, a cui mi rivolgevo per convincermi che il nostro non era il solito patto fra la bella e il cornuto. Ricordavo perfettamente che era domenica: quando lei, trasformandosi, con una di quelle mutazioni che erano il suo talento più intimo, aveva impedito in modo irrevocabile al mio corpo di unirsi al suo. Quella stessa domenica, aveva iniziato a dirmi Ti amo; che può essere la cosa più facile e vuota al mondo, ma non era facile né vuota per lei, e questo lo capivo persino io, nella mia versione sciocca di trent’anni prima.

E qui, sulle domande di un mistero, prima di svelarne le ragioni, si consumarono i nostri ultimi giorni.

Quando il Columbus Hotel smise di essere solo America e divenne un luogo reale.

Era iniziata quella stessa domenica: faceva buio e lei, prima di uscire, mi aveva dato un bacio leggerissimo e mi aveva detto Ti amo. Da quel giorno sarebbe uscita ogni sera, sempre quando iniziava a fare buio. Restava fuori una, due ore, tre ore. Tornava, non diceva, io non domandavo: tutti noi ragazzi, in quell’appartamento e nel mondo, santificavamo il dio della libertà, e guai a mostrarsi come un ostacolo alla libertà, con domande, pretese, scenate. Così io non chiedevo nulla, anche se era obiettivamente folle, mentre ogni giorno, con vera perversione, immaginavo la sua mutazione, e la sua degradazione. Per quelle ore della sera, lei era Columbus Hotel.

Dal marciapiede opposto, a volte, guardavo la reception dell’albergo, simile al soggiorno di una casa privata, uno scorcio che mi appariva osceno e marcio proprio perché intimo e pulito; appariva qualche cliente e io mi allontanavo, facendo finta di nulla. Il Columbus funzionava a ore, per puttane invecchiate e male in arnese, tutte sotto lo stesso protettore, un decrepito italiano monco della mano sinistra, o per amanti della classe operaia, adulteri spiantati che, prima della passione, erano costretti a porsi questioni di soldi. Nell’oscena pornografia della mia immaginazione, il Columbus funzionava soprattutto per lei.

Ma non era ancora un luogo reale: divenne reale dopo una nostra brutta lite, quando lo tirai fuori io, con un’allusione volgarissima, in parte un So tutto, in parte solo un’altro modo di flagellare me stesso. Ero ancora un bambino, e giocavo con le figurine della vita reale, e mai mi sarei aspettato di ritrovarmici in mezzo, precipitato nella vita reale dalla sua risposta:

– Lascia stare. Ma davvero: lascia stare quel posto. Non è per te. Davvero, per favore amore mio: lascialo stare. Che è molto meglio.

La guardavo, in mezzo al festino, lì dove l’aveva colta l’indice puntato di Brando. Ammiravo l’elegante sorriso di scuse con cui si allontanava dai mezzi sconosciuti per venire da noi. Il vizio sproporzionava le mie idee: mi sentivo lontano dal suo campo di forze; per questo, potevo apprezzarla come nuova, come donna, da uomo fatto, costruito come lei dai trent’anni di ignoto. Avrebbe potuto amarmi, oggi, e di certo, per la prima volta, io avrei potuto amare lei, donna reale, e condonare i suoi vizi, sorridere delle sue mutazioni.

Intanto, Brando parlava:

– Per davvero. Questo è verissimo. La gelosia – e schioccò le dita: non sopportava che gli si dessero le spalle – Tu non sei stato in carcere. Ti immagini, la gelosia, in carcere? Come fanno a stare in galera, i gelosi?

– Come fanno?
– Niente, fanno. Danno di matto e stanno peggio. E basta. Capisci?

Tirai la riga grottesca, lunga e larga quanto uno scherzo, dal piatto che Brando mi aveva avvicinato, e l’effetto fu immediato, e perfetto, da manuale di tossicologia. In un attimo, la mia intelligenza fu più vasta, e perentoria nel formulare le proprie verità, e capace di metterle in parola nello stesso momento in cui le raggiungeva.

– Sai cos’è la gelosia? – chiesi a Brando.
– Ma dimmi la tua.
– L’intima persuasione di non valere quanto gli altri.

Brando non disse nulla, annuì appena, e seppi che era fatta. Con un getto prodotto in gran parte dalla cocaina, di esaltazione euforica, percepii il successo: lo avevo conquistato; ora Brando sapeva di avere a che fare con un suo pari.

Eccoci, amore – disse la mia testa – questa è fatta. Partiamo da qui, ora.

Ma l’adolescente volle ricordare la sua presenza. C’era ancora, c’era anche lui, dalle parti del posto di guida, quasi al centro della mia coscienza, timido ma invadente, con le sue pretese. L’adolescente c’era ancora: io avevo l’accendino in tasca, accendevo le sigarette con l’accendino, ma era bastato vedere Brando che usava i fiammiferi, il gesto che faceva, per portare subito la fiamma al riparo del cavo della mano, e l’adolescente si era messo a imitarlo; avevo acceso tutte le decine di sigarette che avevo fumato lì, davanti a Brando, usando i fiammiferi e imitando la sua mossa.

Un vago sorriso dava a intendere che la cosa non era passata inosservata.

Maledetto adolescente.

Maledette le sue fissazioni, quel che notava della realtà: lei ci aveva raggiunto e subito aveva scelto, fra noi due; teneva il ginocchio puntato sul bracciolo della poltrona di Brando, e la mano sul suo schienale, e il maledetto adolescente coglieva in questa posa innocente una carica di malizia quasi pornografica, e un’inclinazione erotica che rasentava la parodia, da Pupa del Boss.

Era un’estranea, ma l’adulto doveva riconoscere che era – anche – il suo genere di donna. Ammesso che tutta questa sensualità spregiudicata fosse reale, e non un abbaglio del ragazzino seccatore.

– Oh – le disse Brando – sai che coso, qui – e questa volta indovinò il mio nome – non è un coglione? Per niente. Un gran maleducato – mi rivolse il palmo aperto, per arrestare ogni mia protesta – No, scusa, fammi dire: un gran maleducato. Gli fai le domande e lui non ti risponde. Gli parli e non ti ascolta, manco col cazzo. Continua ad accendere con i fiammiferi da ricordo. – qui sollevò e lasciò cadere la ciotola che conteneva le scatolette – Tu glielo dici, una volta, due volte, ma lui col cazzo – di nuovo sbatté la ciotola, scompigliò forme e colori di quei loghi in miniatura.

Vidi. La sensazione fu quella che, negli incubi, interrompe il sogno e impone il risveglio.

Un colpo interiore, un’esplosione

– Lui continua, accende con i fiammiferi da ricordo. Però non è coglione. Per niente. Oh! Lo vedi? Se n’è andato, di nuovo. Fa così, se ne va. Però si vede che pensa, quando se ne va. Mica è coglione.

La sensazione, l’esplosione, era troppo intensa e decisa per provenire da un errore, ma guardai ancora, quasi con paura, per averne conferma. Allora credetti di esserne certo.

Il vizio scelse l’audacia, per rimuovere ogni dubbio:

– Si vabbé, non sono coglione. Ma mi andate a prendere una cosa da bere? Una cosa seria, no ‘sto ghiaccio sciolto.

Brando ebbe un momento di stupore, davanti ai miei modi, poi si rivolse a lei:

– Ti dispiace? Ce ne versi due. Tutti e due col ghiaccio.
– No, scusa, ma perché non vai tu? Vai tu, okay?

Brando sbalordì. Sgranò gli occhi e tutto il suo viso si riorganizzò per riflessi condizionati, davanti all’imprevedibile puro: un ordine. E la mia faccia piatta, a confermarlo.

Per un istante, colsi quella versione dell’orrore, pericolosa, spaventosa, che il viso di Brando di certo doveva possedere. Ma scelse la distensione, e un sorriso.

Si rivolse a lei:
– Questo è matto davvero. Ma c’ha i coglioni. Brava.

Parlò in dialetto, come se io non potessi capire. Guardiano al confine dei due mondi, aveva spalancato il varco, e lasciato libero il passaggio.

Non sentii che altro disse, annuii e basta. Sentivo i battiti accelerati, sentivo il sudore lungo le tempie, e fissavo gli occhi su un punto, solo su un punto.

La forma era quella, era inconfondibile.

Finalmente Brando si allontanò, tirandosi dietro lei, stretta per un polso.

Presi la scatoletta.

Santificare la libertà, e allora non domandare mai dove e come passasse il suo tempo, quando non era con me, mai pretendere risposte, mai forzare le verità parziali, e le allusioni che rivolgevo soprattutto a me stesso, da masochista, per infangarmi e degradarmi come infangata e degradata era lei, nelle mie dolenti fantasie, al Columbus Hotel. Il Columbus che, da quando lei mi aveva imposto la castità, era anche il set preferito delle mie masturbazioni quotidiane.

Santificare la libertà, e mai pretendere conferme, o cercare prove che confermassero i sospetti peggiori. Solo, ogni giorno, dare lunghe occhiate a quella reception simile a un soggiorno privato, e fantasticare di fermare un cliente, domandare come fossero fatte le stanze in cui lei si dava per soldi – questo ormai era sicuro – e proporgli denaro, se mi avesse scattato delle foto, del Columbus, da dentro, dei bagni, dei corridoi, di ogni cosa.

Mettere insieme il denaro, per permettermi una notte in singola, e poi spendere tutto, solo per fiducia nel suo ammonimento: Lascia stare, che è meglio. Davvero.

Santificare la libertà e mai, ovviamente, mettersi a frugare nella sua borsa. Solo, eravamo al ristorante, fra amici, una sera come tante, e avevo bisogno di accendere. Così misi la mano nella sua borsa e trovai una scatola di fiammiferi.

Me ne accorsi dopo avere acceso: bianca su fondo nero, l’inconfondibile croce di parole che condividevano la O.

Non feci nulla: misi di nuovo nella borsa i fiammiferi del Columbus Hotel e qualche giorno dopo finì tutto.

Il chiasso del festino attorno prese un folle tono subacqueo, distorto.

Certi colpi sono decisivi, indimenticabili.

Dopo trent’anni, avevo in mano la scatola di fiammiferi del Columbus Hotel. Forse era irreale allora, quando era apparsa nella sua borsa, e forse era irreale ancora oggi, qui, fra i fiammiferi collezionati da un pezzo grosso della mala barese.

Accesi un fiammifero, e una sigaretta.

Nel risvolto interno della scatola era disegnato un cuore. Qualcosa era scritto, accanto.

Sentii, allora la voce di Brando:

– E quindi? Vogliamo parlare di cose serie?

Eugenio Vendemiale

 

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