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Madonnellenberg Blues Due
mercoledì, Nov 11

«Ha bisogno di un favore, dunque» pensai.
Si metteva male, troppo per i miei gusti. E soprattutto dopo tutto il fottuto tempo che era trascorso. Sapete, non mi andava affatto di fungere da spugna, chissà cosa cazzo le era successo e soprattutto dove e con chi. Sapete, ero famosissimo per essere lo psicologo da strada a cui tutti si rivolgevano quando si trovavano nei casini, e se dico casini intendo qualunque cosa, droga, donne (uomini, nel caso in cui a cercarmi fossero delle donne, ma anche uomini per gli uomini e donne per le donne, mica mi formalizzo io!), problemi familiari, problemi con gli animali, disperato bisogno di cercare un appartamento per singoli, per due, per tre, bollette scadute e bisogno di soldi in prestito (seh! proprio in prestito), potrei andare avanti all’infinito. Una volta un mio conoscente mi ha persino cercato per cambiargli una lampadina nel cesso, non era capace l’imbecille.

Fatto sta che ci guardammo a lungo (io e lei intendo, non il tipo della lampadina), dopo averle chiesto quelle due cazzate sul come stesse e aver sentito la sua risposta, la mia lingua diventò immobile, anestetizzata, come quella volta che per ammazzare una quantità enorme di mosche spruzzai per aria un’intera bomboletta di insetticida e siccome respiro di merda fumando come un turco, ero con la bocca aperta come al solito e tutto l’insetticida mi finì sulla lingua mentre cadeva dopo i miei spruzzi per aria, come fresca pioggia di marzo. Una cosa che ho raccontato giusto a un paio di persone, talmente la cazzata e la vergogna.

Lei mi guardava e forse intuiva quello che pensavo, ossia se è normale dopo una valanga di tempo presentarsi a qualcuno (che in questo caso non era proprio qualcuno né nessuno) e sbattergli in faccia la necessità di un favore, cose da pazzi. Cose da pazzi lo pensavo io ovviamente, dubito che lo stesse facendo lei, altrimenti la sua bocca non avrebbe proferito quelle parole.

In pochissimi secondi ricordai tutto di noi, un cortometraggio ma davvero corto, un po’ come quando si dice che prima di morire ti scorra la vita davanti in pochi secondi, ecco, proprio così.

Solo che io non stavo morendo, almeno credo… forse sarebbe stato meglio, a dire la verità.

Intanto da Zaum era partita Dollar Bill degli Screaming Trees, un pezzo meraviglioso che adoro, quell’arpeggio acustico iniziale, la voce di Lanegan che dagli inferi sale piano piano in superficie, l’entrata della band, il ritornello. Bei tempi i primi anni Novanta, quell’ondata da Seattle è stata una delle ultime cose belle.

Bevve il suo caffè. Io la guardavo bere il suo caffè. Lei guardava me mentre l’osservavo bere il suo caffè. Quando posò la tazzina sul bancone e si stava accingendo alla cassa per pagare, la fermai… «offro io» le dissi. E così fu.

La prima cosa che feci (giusto per non dirle che, vedendola dopo tanto tempo, il pensiero che mi balenò subito in testa fu quello di attaccarmi a una bottiglia di Jameson) fu di proporle di parlare altrove, magari un posto più isolato, vicino al mare, su una panchina, lontani da tutto, da Dio e dagli uomini.

Accettò di buon grado, d’altra parte fu lei a dirmi che le serviva un favore. Quindi, bella mia, pensai, qua il resto lo decido io, dove, come e quando si parla.

Mentre ci dirigevamo verso il lungomare, nella speranza di trovare una panchina libera e soprattutto non sporca (di piscio di cani ma anche di uomini, di vino, di sangue, ecc.), mi venne in mente – non so perché, o forse sì – un mio carissimo amico di anni addietro, un tizio che si era diplomato geometra, un soggetto maniacalmente fissato e al contempo tormentato con e dalla precisione, e per precisione intendo l’accezione più ampia, mai un minuto di ritardo né di anticipo, asciugamani nel cesso posizionati al centimetro, idem tovaglioli e bicchieri a tavola, idem tutto insomma, una fissazione che era palesemente una sindrome accentuata di carattere ossessivo-compulsivo. Pensate che i suoi amici di scuola gli appiopparono come soprannome ‘il Nonio’; voi direte «e che cazzo è ‘sto nonio?». Siccome non ho voglia di spiegarvelo faccio un bel copia e incolla dalla Treccani:

nònio s. m. [da Nonius, nome latinizzato del matematico e cosmografo port. Pedro Nunes (1492-1577), che per primo lo ideò]. – Dispositivo di cui sono dotati alcuni apparecchi e strumenti di misura (calibri a corsoio, goniometri, micrometri, ecc.) consistente in un cursore graduato affiancato alla scala principale (rettilinea o circolare), che permette di apprezzare frazioni della distanza tra due tratti consecutivi della scala graduata; è detto anche verniero, dal nome del matematico fr. P. Vernier (1580-1637), ritenuto l’inventore del dispositivo attuale.

Questo per farvi capire quanto era preciso ‘sto tizio. Perché mi era venuto in mente proprio in quel momento? Forse perché avrei voluto che la mia vita fosse un minimo più ordinata, a suo modo precisa? Chiaramente senza cadere nella forma ossessiva e maniacale. Forse perché rivedere lei mi aveva riportato alla mente tutto il disordine del passato, gli alti e bassi, lo sfidare l’esistenza ogni fottuto secondo? Chissà. So solo che ci pensai nel tragitto da Zaum fino alla panchina che fortunatamente trovammo, bella isolata, pulita, senza tracce umane né animali, senza cartacce. Una bella panchina vecchio stampo che chissà quante ne aveva raccolte di confessioni. Pareva stesse aspettando proprio noi. Era dunque pronta ad ascoltarci, o meglio ad ascoltare lei. Se non altro mi sentivo un po’ meno solo a sapere che eravamo in due ad ascoltarla, io e la panchina. Chissà che un domani non finirò a parlarci, con le panchine, pensai.

Ci sediamo. «Allora?» faccio io; «un bel casino» fa lei, «solo a te posso raccontare certe cose, solo tu puoi capirmi e farmi – se vorrai – il favore che sto per chiederti».

La mia parte più intima – senza darlo a vedere – iniziò a tremare e a sudare freddo. Lei, come se il tempo non fosse passato e si fosse cristallizzato, un tempo simile a una statua di sale, immobile ma al contempo eterno, iniziò a parlare. Notai che non riusciva tanto a guardarmi mentre lo faceva, mi sembrava avesse gli occhi vagamente lucidi e che la gola fosse ostruita da un pianto che chissà da quanto frequentava quella zona

Giuseppe Ceddia

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