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Madonnellenberg Blues Tre
mercoledì, Nov 18

E mentre osservavo quel pianto che non si convinceva a esplodere, pensai ancora una volta al tempo. Il tempo: questa entità astratta, violenta e superficiale che ti cambia i connotati ma quasi mai ti trasforma davvero dentro. Il tempo che intercorre tra il momento della botta e l’istante in cui le lacrime scendono, tra l’assunzione di un acido e l’inizio delle visioni, tra un caffè ordinato al bar dell’università e un caffè bevuto da Zaum sotto lo sguardo immenso del gentile custode Tonio, più di cinquant’anni compiuti e meno di diciotto dimostrati.

È inevitabile: una lancetta dovrà scorrere su qualche quadrante se vuoi partire, se vuoi tornare, se vuoi nasconderti o scoprirti. Una lancetta si muoverà semplicemente se hai intenzione di vivere, e a volte, se sei particolarmente sfortunato, gli anni che hai fatto trascorrere saranno la sola opera degna di nota della tua esistenza. Ci vuole tempo per conoscere e più tempo per dimenticare, lo sa chiunque. Ci vuole tempo per chiedere un favore e più tempo per farlo, ma forse l’unica cosa che avevo sempre avuto era proprio questa. Guardandomi da fuori come nel pieno di una crisi di depersonalizzazione, avrei potuto dire che in fondo mi mancava praticamente tutto: il denaro, l’amore, il cielo. Ma il tempo no, non mi mancava. Il tempo: trent’anni.

Il tempo riporterà a breve l’ordine degli antichi giorni: così era scritto in un’antologia di poeti romantici francesi che avevo letto appunto trent’anni prima, la settimana che precedeva quel viaggio a Berlino con la curiosa creatura che adesso mi stava di fronte. Ordine a parte, quel verso non aveva mentito: annunciato dalla voce che dice «Un caffè, per favore», il disordine degli antichi giorni stava davvero tornando, per cancellare tutto quello che era avvenuto dopo e tutto quello che sarebbe dovuto succedere ma non era successo.

Stava succedendo, stava succedendo ora. Guardavo i suoi capelli biondi resistere nella sfida lanciata dalla leggera brezza che ci colpiva – indice esteriore di una dignità che aveva travalicato intatta gli anni, nonostante tutto –, osservavo i suoi occhi lucidi e poco adatti a trovare pace mentre puntavano il mio volto, poi il mare, l’orizzonte e quindi i gabbiani che atterravano dalle parti del Chiringuito. Allora prendevo a scrutarmi le mani, cercavo di guardare me, l’intera mia persona, nel tentativo vano di capire meglio che cosa mi stesse passando per la mente e per l’anima: un’accozzaglia di immagini, sensazioni e ricordi – dal rancore al piacere, dalle pupille agli aghi – mi volteggiava dentro alla stregua di un mucchio di corridori che percorrono una scala a chiocciola a quaranta chilometri orari salendo e scendendo continuamente, senza mai fermarsi. Percepivo che in me ogni quadro si era dissolto, ogni mappa era scomparsa, ogni lingua conosciuta era morta, e io avrei potuto fare o dire qualsiasi cosa, in balia di chissà quale forza o debolezza: mi sentivo proprio come l’infelice protagonista di uno di quei risibili racconti scritti a più mani, in cui ciascuna pagina è affidata a uno scribacchino diverso, con tutta l’incongruenza che ne deriva.

Di nuovo, proprio come in uno di quei risibili racconti, percepivo anche altro: percepivo che dentro di me, insieme a una moltitudine di cose, c’era un intestino e che dentro quell’intestino c’era qualcosa che non andava. Che fosse stato un caffè di troppo, un eccesso di emozione e paura o semplicemente un pugno di erba scadente non aveva importanza, ormai era fatta. Così, proprio quando una lacrima era scesa sul suo volto e lei stava per spiegarmi il motivo della sua visita, mi ritrovavo inopinatamente in emergenza.

«Vedi, come ti stavo dicendo, c’è una ragione se mi sono rivolta proprio a te. È davvero un casino e tu nei casini riesci a… Ehi, ma stai bene?»
«A dire il vero non proprio.»
«Che succede?»
«Credo di dover andare urgentemente in bagno.»

Lei era esterrefatta e inchiodata alla panchina, io mi alzai di scatto e in pochi millesimi di secondo cercai di analizzare tutte le opzioni che avevo per risolvere al più presto il problema.

  1. Potevo tornare di corsa da Zaum, fiondarmi nel bagno e poi ordinare un altro caffè. Sapevo perfettamente cosa avrei trovato lì in quel momento: Bianca stava scrivendo la recensione delle Risposte, un cliente si stava dirigendo verso la cassa dopo aver usato la toilette, Daiana stava preparando uno spritz per i tre uomini in giacca e cravatta al bancone, e Arcangelo, che aveva appena fatto partire Green Machine dei Kyuss, stava indicando tutte le falle del pensiero di Jean-Luc Nancy a una parvenue della filosofia. Forse non sarei riuscito a fare lo slalom tra tutta questa gente senza farmi cogliere prima dalla catastrofe.
  2. Potevo entrare nel bar più vicino – ma in fondo solo poco più vicino di Zaum –, strillare al barista: «Uncaffèperfavoreilbagnodov’è?» e volare verso la porta in fondo a destra.
  3. Potevo galoppare fino all’aiuola distante sì e no cinque metri dalla panchina e abbandonarmi alle mie necessità confondendomi tra gli animali da compagnia.

Optai per l’ultima ipotesi, la più veloce da formulare e anche da mettere in pratica, e intanto malinconicamente pensai che in quel momento il soggetto più in linea con il mio mondo emotivo era senza dubbio il cane antropomorfico che in un videogioco degli anni ’90 otteneva l’accesso al sospirato WC solo dopo aver sfidato e sconfitto a suon di rap una serie di personaggi sorpresi come lui da gravi disturbi intestinali.

Finalmente l’aiuola. Bastò un attimo e fui libero. Grazie alla complicità di un cespuglio, credevo di essere riuscito nell’impresa di nascondermi dagli sguardi indiscreti, ma quando stavo andando via mi raggiunse un «Oh, ma lo sai che ‘ste cose non si fanno?». Mi voltai e vidi che poco dietro di me, nello spiazzo vicino all’aiuola, c’era Brando: cappotto di pelle in stile Matrix, capelli ricci, lunghi e tinti di castano rossiccio, abbronzatura votata all’eternità, Ray-Ban Aviator, Peroni in pugno e ghigno sul volto, Brando era un famoso malvivente della zona. Non gli risposi. Di lui in realtà non sapevo granché, tranne che era meglio non averci niente a che fare. «Sei hai un po’ di confidenza con Brando significa soltanto una cosa: che sei nei casini fino al collo». Di questo tipo erano le voci che giravano.

Capirete quindi la mia inquietudine nell’istante in cui su quello spiazzo vidi apparire lei, la donna venuta dal mio passato, e la sentii pronunciare queste semplici, tremende parole: «Ciao, Brando».

Johnny il Sibarita

 

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