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Madonnellenberg Blues Uno
mercoledì, Nov 04

Kollaps

Non dovevo lavorare quel giorno e così avevo deciso di andare a fare colazione da Prinz Zaum. Da quando questa libreria/caffetteria/bar/qualunquecosacipassiperlatesta ha aperto, circa tre anni fa, è quasi immediatamente diventata il mio luogo preferito dove perdere tempo senza sprecarlo. Il cielo era scuro su Madonnellenberg e l’inverno cominciava a farsi sentire. Bianca preparava i caffè al banco e Tonio, sulla soglia, fumava l’ennesima sigaretta.
Ero seduto sul bordo del piccolo palco da concerti e stavo sfogliando un libro.

«Un caffè, per favore».
Conoscevo quella voce.
Fu come se mi fosse risalito un acido di colpo. Non una bella sensazione. Per niente.
«Un caffè, per favore».

Ero appoggiato al bancone del bar dell’università e stavo aspettando l’inizio di un assemblea quando la vidi la prima volta: stivaletti neri, jeans neri e al lobo sinistro un piccolo scorpione d’argento. I lunghi capelli biondi scendevano su una giacca di taglio maschile e si muoveva con una sicurezza disarmante.

Aveva un’aria vagamente incazzata e la seguii con lo sguardo mentre si allontanava lungo i corridoi fino a essere inghiottita dall’ascensore

La ritrovai nell’assemblea, che a quel punto aveva perso ogni interesse, passando tutto il tempo a guardarla facendo finta di non farlo. Ero evidentemente un perfetto idiota. Mi avvicinò lei, mi portò a bere in uno dei tre pub aperti a Bari (la vita notturna della città era un po’ una merda, diciamo) e quella notte stessa facemmo l’amore.

Abitava, sola, in un appartamento di Poggiofranco e la mattina preparò una colazione ricchissima ridendo molto del mio stupore mentre assaggiavo il burro salato.

Dopo due giorni mi chiese se volevo accompagnarla a Berlino.

Avevo appena finito la scuola, venivo dalle case popolari di Japigia, ero un coatto che aveva da poco scoperto i Sex Pistols e la tipa con cui avevo fatto l’amore per la prima volta mi chiedeva di fare un viaggio assieme.
Passai le successive 48 ore a trovare quanti più soldi possibile.
Quando, sul treno, le feci notare che il biglietto che mi aveva dato forse era sbagliato perché c’era scritto che partivamo da Brindisi e non da Bari mi disse di non preoccuparmi, era solo che il biglietto era falso ma non se ne sarebbe accorto nessuno.

All’epoca tutti i ragazzi dell’underground usavano questo sistema per viaggiare: compravi un BiGe transalpino da poche migliaia di lire, un Como Lugano ad esempio e cambiavi la partenza e l’arrivo con l’aiuto di uno stuzzicadenti e un po’ di smacchiatore e il gioco era fatto. Ho viaggiato per anni in questo modo ma quella era la mia prima volta.

Credo trovasse molto divertente la mia paura di essere beccati dalle guardie della Germania Est ma fortunatamente non successe nulla .

Restammo a Berlino poco meno di un mese e ho ricordi vivissimi ma talmente veloci che mi risulta quasi impossibile non sovrapporli.

L’appartamento con il pavimento di moquette talmente lercio che non ci ho mai camminato scalzo, gli occhiali da sole alla Lou Reed che comprai usati il giorno dopo essere arrivati, il freddo bastardo che penetrava il sottile tessuto dei jeans. Il letto poggiato direttamente a terra «si chiama futon» mi disse ridendo. Le canzoni si mischiavano alla vita reale fino a scomparire.

Ricordo che stavamo accanto al muro e ricordo che la prima volta non pensavo il rosa potesse essere così amaro e così veloce, il rumore degli Einsturzende Neubaten che diventa musica nelle cantine nascoste dove si tenevano spettacoli potentissimi, la luce dell’alba che si impasta al cemento della Oranienstrasse e ai miei anfibi resi pesantissimi dal down di anfetamina, i turchi e il kebab a colazione .

Mi sembrava di imparare in quei giorni più di quanto avessi imparato nei precedenti diciotto anni e, col senno di poi, devo dire che non avevo torto.
La mia maestra aveva un modo gentile e rassicurante di chiedermi cose, per me, estremamente complicate e non prive di rischi tipo «per favore potresti scendere al parco e prendere dello speed da quei ragazzi? Io ti aspetto al caffè e poi andiamo a casa a fare l’amore».

Così mi ritrovavo solo per strada a contrattare con giovani pieni di piercing e dai capelli coloratissimi l’acquisto di sostanze che non sapevo esistessero fino a una settimana prima.
Stranamente in quei giorni nessuno mi fece il culo e ben presto mi uniformai all’aria di festa senza fine che si respirava nell’aria complice il fatto che, «non è un effetto secondario della cocaina» ero innamorato perso.

Tornai a casa con 15 chili in meno e, ovviamente il cuore spezzato.
Lei andò a studiare in un altra città e io tornai a Bari.

Fine della storia. Ci siamo sentiti per qualche tempo poi il buio.
Per circa trenta anni.

Avevo paura ad alzare la testa, speravo si spostasse verso la libreria in modo da poter guadagnare facilmente l’uscita, guardai Tonio che mi fissava e sembrava aspettare.

«Ciao»
«Ciao» risposi fingendo un entusiasmo che non avevo «da quanto tempo. Quando sei tornata?»
«Sono arrivata ieri. Ti cercavo e mi hanno detto che avrei potuto trovarti qui. Come stai?»
«Bene» – finora, pensai.
«Ho bisogno di un favore».

Antonio De Mattia

 

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